Annapaola Prestia immagina il suo libro dedicato ai caregiver degli anziani con La Favola del Successo

Interviste

Benvenuti alla La Favola del Successo. Io sono Dario Ramerini, codirettore della collana e oggi abbiamo il piacere di ospitare una professionista che ogni giorno si prende cura delle fragilità più silenziose, quelle che abitano nelle case delle famiglie e si annidano nei rapporti con gli anziani colpiti da malattie neurodegenerative. Con noi c’è Annapaola Prestia, psicologa e cofondatrice di Sofia per la famiglia.

Benvenuta, Annapaola!

Grazie, Dario. È un piacere essere qui”.

Oggi ti chiedo di accompagnarci in un viaggio che potrebbe avere la forma di un libro, ma anche quella di una guida pratica. Perché il tuo lavoro tocca un tema tanto invisibile quanto cruciale: la relazione tra le famiglie e gli anziani che iniziano a manifestare segnali di malattie mentali. Mi riferisco in particolare alla demenza, che trasforma una persona cara in qualcuno che diventa irriconoscibile, anche dentro casa propria. Puoi raccontarci come si manifesta questa dinamica?

La dinamica è sempre complessa, soprattutto perché coinvolge le relazioni. Quando una persona cara — un padre, un fratello, un marito — comincia a cambiare, il primo istinto è quello di minimizzare. Si pensa che sia solo stress, stanchezza, magari la pensione o l’età. Ma quei piccoli cambiamenti si sommano, e alla fine ci si ritrova davanti a qualcuno che non si riconosce più. E lì nasce la crisi familiare: non si capisce più come relazionarsi, si perde il senso del rapporto. E la cosa più dolorosa è che non esistono cure che possano riportare quella persona a com’era prima. L’unico margine d’azione è adattarsi nel modo più indolore possibile”.

Questo mi fa pensare al concetto antico di morbum sine materia, quella malattia che non si vede nel corpo ma che c’è. Gli psichiatri di un tempo parlavano di un daimon interiore che guidava il processo di guarigione, oppure di rassegnazione. Questo può portare le famiglie a un nichilismo passivo, un senso di resa. Ma io credo che il tuo lavoro aiuti a trasformare quella resa in un “nichilismo attivo”, fatto di passione e consapevolezza. Che ne pensi?

Hai centrato il punto. La relazione è tutto. Oggi sappiamo che la demenza è molto più una malattia sociale che sanitaria. Il cervello cambia lentamente, inizia a trasformarsi anche quarant’anni prima che i sintomi emergano. Ma la diagnosi arriva quando la persona non è più in grado di vivere da sola, e lì la famiglia entra in gioco. Il neurologo può prescrivere farmaci, ma poi è il familiare — il caregiver — che si fa carico del quotidiano, che conosce il malato meglio di chiunque altro. La qualità della vita dipende da come ci relazioniamo con lui o con lei. Non si cambia l’esito della malattia, ma si può cambiare radicalmente l’esperienza che si vive ogni giorno”.

E in questo senso, è vero che la medicina relazionale può avere un impatto molto più concreto rispetto ai farmaci. La tua esperienza lo dimostra.

Assolutamente. Faccio un esempio pratico: se una persona con demenza non riconosce più la moglie e la vede come una sconosciuta, può anche diventare aggressiva. È doloroso, ma sapere da dove viene quel comportamento può cambiare tutto. Se so che lui è convinto che sua moglie sia un’altra persona, posso rispondere in modo diverso. E magari, invece di andare a dormire con un naso rotto, ci si addormenta ancora tenendosi per mano”.

È una differenza abissale. E mi viene in mente la radice della parola “delirio”: deriva da lira, il solco tracciato dall’aratro. Uscire da quel solco può portare in un campo sterile… o in uno fertile. Ma spesso, per chi vive con la persona delirante, è difficile sapere dove si sta andando.

“Già. E le famiglie oggi sono molto cambiate. Ci sono meno supporti, meno reti sociali. A volte ci si trova in due anziani soli, con figli lontani o assenti. E il peso ricade sempre su una persona, spesso una donna. Le statistiche lo confermano: la maggior parte dei caregiver sono donne, che si trovano a dover scegliere tra la propria famiglia e quella d’origine. È uno squilibrio devastante”.

Questa frattura si riflette anche nel modo in cui educhiamo i nostri figli. Se i giovani vedono che gli anziani vengono messi da parte, rischiano di perdere il senso di appartenenza familiare.

“Verissimo. La nostra società è diventata un po’ come quella metafora del “cimitero degli elefanti”: l’anziano che si allontana per morire solo. Ma nella realtà, questo allontanamento non è una scelta consapevole, è un’esclusione sociale. Quando invece esistono metodi e strumenti per tenere insieme le famiglie, per rendere le persone ancora partecipi”.

Come quelli che offrite con Sofia per la famiglia.

“Esatto. Non interveniamo solo sul malato, ma sulla famiglia intera. Perché, se il caregiver crolla, crolla tutta la struttura. Offriamo consigli pratici: come parlare con una persona che non ti riconosce, come gestire comportamenti apparentemente assurdi: ad esempio, fare pipì nel bidet. Può sembrare banale, ma dietro c’è un funzionamento cerebrale alterato. Un asciugamano scuro sul bidet può evitare un problema ricorrente e migliorare la qualità di vita, anche psicologica, della famiglia…Ma non tutti lo sanno”.

Questi sono esempi semplici, ma potentissimi.

“Lo sono. E sono proprio queste “piccole cose” a fare la differenza – per il caregiver e la sua famiglia – tra una giornata serena e una giornata infernale. Se ogni giorno riesci a chiuderlo senza farti “un fegato così”, allora va già bene. Il giorno dopo si riparte”.

Credo che il tuo contributo sia fondamentale anche per evitare quei casi estremi in cui il caregiver, esausto, perde il controllo e si sfiora la tragedia.

“Purtroppo sì. Durante la pandemia ho ricevuto decine di telefonate di famiglie allo stremo, chiuse in casa senza supporti, senza respiro. Da lì è nato il nostro impegno maggiore, anche attraverso la scrittura, per dare strumenti concreti alle persone. Perché nessuno ti prepara alla demenza di tua madre o di tuo padre. E invece si può imparare, ci sono tecniche comunicative semplici ma efficaci”.

Anche questo è un tema cruciale: non rispondere con la logica, ma con l’empatia. Non dire “Papà è morto” se ti chiedono dov’è, ma trovare un modo per stare nella loro realtà.

“Esattamente. È un viaggio nel tempo, in un presente eterno in cui tua madre ti chiede dov’è Annapaola e tu sei lì davanti a lei. Non è crudeltà, è disorientamento. Lei cerca una bambina, non una donna di cinquant’anni. Se le dici che Anna Paola è all’asilo, si tranquillizza. Ma nessuno ci insegna queste cose”.

Eppure, come dici, si può imparare. Con le giuste informazioni e un po’ di formazione, si può cambiare radicalmente l’esperienza di cura.

“Sì. Per questo lavoriamo con le famiglie, ogni giorno. Per conservare la salute mentale non solo del malato, ma anche del caregiver. Perché, se si ammala lui, la piramide del disagio si allarga. E a quel punto, il sistema collassa davvero”.

Grazie di essere stata alla Favola del Successo, Annapaola!

GUARDA LA VIDEOINTERVISTA CON ANNAPAOLA PRESTIA

 

Diventa anche tu un autore della collana
"La Favola del Successo"

Contattaci per qualsiasi chiarimento e per cominciare a realizzare il tuo libro!

Noi ti consigliamo di iniziare dal questionario per poterti fornire subito una prima visione sulla fattibilità!

Solo 3 mesi per realizzare il tuo libro di successo

Solo 5 mesi per posizionarlo nelle librerie